R/ESISTENZA 

In trincea per difendere le differenze culturali

Quando il progresso distrugge l'identità

Michele Serra

Ogni ragionamento sulla globalizzazione deve fare i conti con una complicata, perfino dolorosa constatazione: è soprattutto il benessere che globalizza (e cioè tende a omologare i consumi, e a piallare le differenze), mentre la povertà preserva meglio le identità locali. Applicato all'infanzia, questo rapporto direttamente proporzionale tra accesso al benessere e perdita di diversità appare perfino più evidente, e mette severamente in crisi molti dei legittimi dubbi (specialmente culturali e politici) che abbiamo sulla globalizzazione. Ci si può e ci si deve interrogare, come fa El Pais, sulla progressiva identificazione, per usi e costumi, dei bambini "mediterranei" in bambini "anglossassoni". Ma, allargando il campo visivo, chi si sentirebbe di suggerire a un bambino africano denutrito, o a una bambina pakistana "venduta" dai genitori a un marito sconosciuto, di tenersi strette le sue radici e rigettare le lusinghe del modo di vivere occidentale? E rimpiangere la presunta età dell'oro nella quale i bambini giocavano e spesso crescevano per la strada, piuttosto che chiudersi in casa con giochini elettronici identici a ogni latitudine, non espone forse all'ovvia replica che "bambini di strada" significa, in tutta l'America Latina e in molti paesi dell'Est europeo, bambini abbandonati, esposti al crimine e alla prostituzione, alle malattie e alla violenza? E più in generale, chi si sentirebbe di affermare che l'infanzia era meglio tutelata ieri piuttosto che oggi, più rispettata nei suoi diritti, nella sua autonomia di scelta, nella sua delicata alterità rispetto al mondo adulto? La realtà è che la globalizzazione e il consumismo seducono perché quasi ovunque, perfino laddove creano nuovo sfruttamento e schiavitù sessuale, sono visti come la fuoruscita dalla fame. Ma questo - proprio questo - restituisce valore e senso alla cocciuta fatica con la quale, specie in Occidente, ci si interroga e ci si danna in favore del multiculturalismo: delle comunità immigrate in primo luogo, ma anche dei popoli lontani che lottano per l'accesso a un livello minimo di reddito rischiando di pagare il prezzo (altissimo) di uno sradicamento culturale spaventoso. Si domandi a uno di quei bravi e generosi preti che militano per la dignità del loro prossimo in mezzo alle bidonville e alla discariche del Terzo Mondo, quanto sia difficile fare lavoro sociale in mezzo a quelle moltitudini di bambini, e di giovanissimi, che sognano di sfuggire al bisogno diventando "come noi". Con la maglietta di Del Piero o di Beckham, la televisione, internet, magari frugando tra le deiezioni tossiche dell´elettronica che l´Occidente scarica accanto alle loro baracche, come documentano spaventosi reportage girati nel limo fetido e sterile che la nostra opulenza fa refluire fin laggiù… È possibile accedere al benessere senza diventarne sudditi, senza dimenticare le radici, gli usi, le storie, i giochi che rendono così varia e differente l'umanità? Può un bambino arabo, ancora nel suo Paese oppure in un sobborgo di Londra o di Milano, accedere ai nostri diritti e ai nostri consumi senza perdere identità, oppure non esiste via di mezzo tra la ribellione (politica prima ancora che religiosa) dell'integrismo, le madrasse, l'odio etnico per gli infedeli, e di contro la resa incondizionata a quell' invadente "noi" che l'Occidente impone al resto dell'umanità, la progressiva cancellazione dei dati originari? Tra il villaggio dove si è nati e il villaggio globale il salto è così violento che indagini sull'omologazione dell'infanzia ai gusti, ai passatempo, ai comportamenti del modello americano, sono inevitabili sussulti della buona coscienza e anche del buon senso: la perdita di radici, di memoria, di bio-diversità (termine che non andrebbe usato solo per le sementi, ma anche per i bambini) è davvero il prezzo obbligatorio da pagare a un "progresso" che, per giunta, non pare navigare in acque tranquille, né seguire rotte così sicure? E, all'opposto: non si rischia, maledicendo la "mondializzazione" (concetto reazionario molto amato dalla destra estrema), di perpetuare l'esclusione, l'arcaismo, il tribalismo, l'asservimento di ogni individuo (i bambini per primi, i bambini più di tutti) alle leggi eterne della tradizione? Nel bel mezzo di questo dilemma, possiamo capire e apprezzare meglio il lavoro, spesso molto frainteso, di migliaia di insegnati, pedagogisti, assistenti sociali, preti, volontari, e anche politici, che cercano di difendere, a costo di qualche eccesso politicamente corretto, la trincea delle differenze culturali. Una danza bengalese in un saggio di fine anno di una scuola elementare emiliana (come mi è capitato di vedere) non è una stramberia, o una concessione "buonista". È una maniera generosa, coraggiosa, di accogliere una bambina di cultura diversa, di farla sentire "come noi", "in mezzo a noi", però rimanendo se stessa, rimanendo differente. Questa scommessa è la sola che vale la pena di azzardare, se si vuole combattere la doppia trappola della "nostalgia dei bei tempi andati" e delle radici forti da un lato, e dall'altro dell'integrazione vista come imposizione ottusa del Modello Unico. Nel caso in questione, del Bambino Unico.

 da La Repubblica - 13 settembre 2008

 

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