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						 Sibilla 
					Aleramo 
					                                                  
				(Dal mio diario: 1940-1945)
    
					24 novembre 1940 
					Nella prima notte del secolo ventesimo, 
				esattamente dalla mezzanotte al tocco, una giovane donna scrisse 
				per sé sola alcune pagine, di cui non poté più tardi rammentare 
				il contenuto. Doveva essere un saluto al nuovo tempo, un atto di 
				proponimento e forse di fede. Non c’era con lei, addormentato 
				nella stanza accanto, altri che il suo bambino. Ripensandoci 
				qualche volta più tardi (quei foglietti dimenticati e poi dal 
				marito distrutti dopo che lei se n’era andata via) è parso a 
				quella donna – a me – d’aver scritto in uno stato tra 
				sonnambolico e divinatorio. Dovevo essere tutta permeata di 
				senso cosmico, come ascoltando la terra quella notte veleggiare 
				nelle sfere con più ansia e responsabilità, non so bene se 
				storica o astrale. Povera minuscola terra, nel cielo che io 
				immaginavo, al di là della finestra chiusa, costellato di mondi: 
				veleggiava incontro a guerre e rivoluzioni, e ad invenzioni e 
				musiche e voci di poesia… mektoub, dicono gli arabi, e 
				significa così sia. (Sentii la prima volta questa 
				parola l’estate del 1912, in una foresta della Corsica, e me ne 
				diede spiegazione un giovane còrso che villeggiava là ma 
				risiedeva a Tunisi. Che ne sarà di lui, che si chiamava Joe, 
				aveva lucenti occhi verdi e diceva che se fosse morto ad 80 anni 
				e gli avessero spaccato il cuore vi avrebbero trovato inciso il 
				mio nome?) Mektoub, Mektoub… cosa ci prepara la sorte? 
					
						
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							|   DIARIO DI UNA 
						DIVERSA 
							 di Alda Merini  | 
						 
					 
					
					 Casa 
				di cura Paolo Pini di Affori, 1965-1972
  Ricordo il primo giorno che entrai in manicomio. Avevo chiesto 
				aiuto a dei neurologi per dei piccoli disturbi, ma non conoscevo 
				questi ghetti. Perché, se avessi saputo una cosa simile, mi 
				sarei certamente uccisa. Sono incredibili i segni che si 
				avvertono su quelle facce di reclusi, lo schifo che fanno. E poi 
				tu diventi una di loro e fuori nessuno ti riconosce più. Dio! 
				Quanto spasimare sotto gli effetti del Serenase, del Largactil, 
				farmaci potentissimi, che c’invischiavano il corpo e l’anima. 
				Quando mi fecero la cura del Dobren (dieci iniezioni al giorno) 
				ero ridotta in uno stato tragico, non potevo sedermi, non avevo 
				un attimo di rilassamento, quel farmaco orrendo teneva 
				continuamente desti, ma i medici dicevano che “dopo” ci saremmo 
				sentiti meglio. Il dottore che mi aveva in cura sostiene che, 
				per un lungo periodo, io persi il contatto con la realtà. Ma chi 
				può stabilire cos’è la realtà? Noi chiamiamo realtà ciò che 
				vediamo, sentiamo, odoriamo. Non siamo noi, dunque, la sola 
				autentica realtà possibile? E’ da noi che partono le cose. E 
				allora io andai solo un po’ più in alto, nel regno della 
				metafisica: è questo che voleva intendere, il dottore? Non lo 
				so. So che è vero che ho un buco nero nella memoria. Ma so anche 
				che quel buco nero fu l’inizio della mia guarigione: perché 
				nessuno, non udendo e non provando io più nulla, osò più farmi 
				del male. L’uomo è un cattivo soggetto e quando trova una 
				tortora, qualcuno che parla troppo piano, qualcuno che piange, 
				gli butta addosso le proprie colpe, ed è così che nascono i 
				pazzi. La pazzia non esiste. Esiste solo nei riflessi onirici 
				del sonno e nel terrore che abbiamo tutti di perdere la nostra 
				ragione. 
					  
						
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							Arthur Schnitzler
  (Diari e Lettere)  | 
						 
					 
					3 giugno 1919 Le condizioni di pace dell’Intesa presentate a Versailles. Che 
				accadrà ora in Germania? Nazionalismo? Bolscevismo? Austria 
				tedesca coinvolta? Fine del mondo? Le parole non hanno valore. 
				Non avverto ciò che accade qui come una cosa tremenda. Ma i 
				luoghi comuni di giustizia e di pace tra i popoli, che hanno 
				dato inizio a tutto quel che adesso viviamo e che ancora lo 
				accompagnano: queste sono le novità della situazione. Crudeltà, 
				ebbrezza di potere, furfanteria, stupidità si ripetono in tutte 
				le “grandi epoche” della storia, così come la menzogna… ma 
				menzogna che si smaschera in un attimo come tale anche per i più 
				ciechi, menzogna senza scopo, menzogna che non è più neppure 
				derisione, appena più di una frase; in breve, la menzogna in sé, 
				senza scherzo, senza significato, senza grandezza: queste sono 
				le cose che viviamo oggi per la prima volta. Sogni quasi ogni 
				notte: di Olga, cose buone e cattive, mai troppo chiaramente: 
				oggi, un doppio suicidio, lei e io; io però non ero poi così 
				interessato; lei era a letto, io le ho dato del vino, forse 
				anche del Veronal; lei ha detto (come per chiarire): “Abbiamo 
				tentato di sedurci a vicenda, ma è stato inutile” (o cose 
				simili). Pomeriggio. Un giovane è crollato a terra davanti a 
				casa nostra. E’ stato colpito alla testa da un proiettile, ha 
				una placca d’argento a protezione del cranio, il braccio destro 
				sostituito da una protesi; era seduto sulla panchina davanti 
				alla porta, coperto di cenci; è stato ferito nella quarta 
				battaglia dell’Isonzo. Gli abbiamo dato da mangiare e del 
				denaro. Possibile che ci si senta colpevoli di fronte ad ogni 
				infelice…? 
					  
						
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							Manuela Dviri 
							(Diario da Tel Aviv)  | 
						 
					 
					Novembre 1999 I miei genitori, Israel Vitali Norsa, padovano, e Giuliana 
				Ascoli, anconetana, si sono incontrati e amati nel ’48 al 
				famosissimo campeggio ebraico di Misurina, dov’erano arrivati, 
				come tanti altri ebrei italiani, con l’intenzione di trovare un 
				partner e formare una famiglia: felici di essere vivi e di non 
				doversi più nascondere. Nella mia famiglia, Israele era un 
				motivo di orgoglio, un punto fermo: in quel clima sono 
				cresciuta, e non per caso nel ’68 feci la prima scelta della mia 
				vita e partii per la Terra Promessa, dopo avere conosciuto e 
				sposato un giovane israeliano, Avraham Dviri. Non avevo ancora 
				vent’anni. Il mio primo figlio Eyal nacque nel ’69, Michail nel 
				’72, Joni nel ’77. Furono anni molto duri: nuova lingua, nuove 
				abitudini, mentalità diversa. Anni di nostalgia per Padova e 
				l’Italia; ma non fui mai tentata di tornare indietro: volevo 
				mettere in pratica con la mia vita quella catena di valori 
				ebraici di cui tanto s’era parlato in famiglia. Mai avrei 
				supposto che, a causa di una guerra e della morte di mio figlio 
				Joni, appena ventenne in Libano, la catena si sarebbe spezzata. 
				Il dramma che mi ha colpito 20 mesi fa mi ha immerso nelle 
				contraddizioni più laceranti: Joni è morto in territorio 
				libanese, non nella nostra terra. Ho cominciato a pormi domande 
				e a chiedere risposte ai politici. E’ stata la mia seconda 
				scelta, la protesta: una lettera aperta a Nethanyau, interviste, 
				articoli, conferenze in cui chiedevo l’uscita dal Libano. La 
				risposta della società israeliana è stata forte: lettere, 
				telefonate, testimonianze. Oggi riesco a dare un senso alla 
				morte di Joni; di Israele non ho più la visione idealizzata dei 
				miei genitori, ma credo nella sua vitalità e nel suo futuro: è 
				la mia terza scelta. 
					  
						
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							  Vittorio De Seta 
							 (Un uomo a metà, diario di lavorazione 1962-1966)  
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					2 agosto 1966
  Il film è derivato da una crisi, da un sentimento di dubbio, 
				da un bisogno radicale di cercare prima di tutto dentro di sé le 
				cause dei conflitti, di risolverle dentro di sè. La civiltà dei 
				consumi, la civiltà di massa sta diventando un flagello perchè 
				annienta l'individuo, ne disgrega la personalità, l'unica, 
				l'ultima salvaguardia. Per cui, in quest'epoca di folle 
				estroversione mi ha interessato fare un film sull'introspezione, 
				in quest'epoca di astronauti raccontare la storia di un 
				“entronauta”. Non è stato facile. In questo momento di 007 e di 
				western all'italiana è molto difficile andare contro corrente, 
				perché lo spirito dei tempi è contro, dunque non solo produttori 
				e distributori, ma tutti, tutto quel flusso di opinioni, gusto, 
				costume: i prodigi collettivi. Il cinema d'autore è agli 
				antipodi del cinema industriale, e questo impone la scelta di 
				diverse formule produttive, mezzi tecnici più leggeri ed 
				adeguati. Bisogna trasformarsi in artigiani, imparare tanti 
				mestieri. Non intravedo altre vie d'uscita, se si vuole restare 
				indipendenti. Il cinema, nella sua realtà concreta, è così 
				legato a questi problemi organizzativi e tecnici che questi 
				ultimi diventano una parte decisiva del momento creativo: tutto 
				il resto è velleità ed astrazione. Bisogna capire i sacrifici 
				che stanno dietro a un film indipendente, quante difficoltà 
				proprio all'inizio, quando si padroneggia meno il mestiere, non 
				si è affermati e tanto più si è tentati di lasciar perdere tutto 
				e rientrare in buon ordine nei ranghi. Non esiste altra arte che 
				eserciti maggiore erosione, anzi: sgretolamento della 
				personalità dell'artista. Bisogna voltarsi indietro, guardarsi 
				intorno, per constatare quanta gente è stata annientata.    grazie al contributo del sito 
				www.diaridelnovecento.com   |