Ridare dignità alla morte .

Umberto Veronesi:  Intervista di Luca Landò

 

"La morte della persona coincide con la morte di un organo preciso, il cervello. Quando non c'è più attività cerebrale, non c'è più nulla di quello che caratterizza la nostra vita umana: non c'è più pensiero, né memoria, né emozioni».
Così il professore Umberto Veronesi risponde all’Osservatore Romano. E sul testamento biologico, Veronesi oggi senatore del Pd e ministro ombra alla Sanità, spiega che serve per ridare dignità alla morte.

Il Pd che si divide sul testamento biologico, il Vaticano che prende le distanze dall’Osservatore Romano sulla morte cerebrale, la Regione Lombardia che contesta la decisione dei giudici sul caso Englaro: benvenuti nel caos. O forse benvenuti in Italia. Perché negli stessi giorni in cui la Spagna, in Andalusia, si prepara a varare una legge per "il diritto a una morte dignitosa" (come fanno da tempo Francia, Inghilterra, Danimarca, Germania, Stati Uniti, Canada) da noi si litiga senza decidere nulla.

Davvero in Italia è così difficile affrontare i temi che riguardano la vita e la morte? Davvero è così complesso discutere di leggi che, più di altre, toccano la coscienza di ogni singolo cittadino?
Umberto Veronesi, ex ministro della Sanità, oncologo e oggi senatore del Pd, non ha dubbi: "E’ quello che accade quando si mischiano i ruoli, quando si confonde il campo della bioetica con quello della scienza. Quando chi parla non sa e chi sa non può parlare. E questo avviene perché non esiste una legge che dica, chiaramente, quali sono le regole".

Il caso dell’Osservatore Romano è esemplare: con un articolo pubblicato martedì scorso la storica Lucetta Scaraffia, vicepresidente dell’associazione Scienza e Vita e componente del Comitato Nazionale di Bioetica, sostiene che la dichiarazione di morte cerebrale non è più sufficiente per affermare che la vita è finita. Un’affermazione impegnativa, in aperto contrasto con i criteri alla base della medicina dei trapianti.
«Il punto è che la bioetica dovrebbe disinteressarsi delle minuziose definizioni degli eventi che la scienza porta con sé. Definire quale sia il vero momento della morte è molto difficile. Un tempo si diceva che un cuore che batte era segno di vita. Da quarant’anni sappiamo che non è così. Se prendo un cuore umano e lo metto in coltura, cioè in condizioni adeguate, continua a battere anche al di fuori del paziente. Lo stesso per un rene: se lo collego a una macchina continua a filtrare sostanze tossiche e a produrre urina. Agli organi non interessa da dove arriva il sangue, se dalle vene del paziente o da una pompa artificiale: basta che continuino a ricevere ossigeno, acqua, sali minerali. Da un punto di vista biologico questi organi sono vivi, ma questo significa che la persona che li ha donati è ancora viva? Direi proprio di no. La morte della persona coincide con la morte di un organo preciso, il cervello. Quando non c’è più attività cerebrale, non c’è più nulla di quello che caratterizza la nostra vita umana: non c’è più pensiero, né memoria, né emozioni. Questo non l’ho stabilito io, ma il famoso Protocollo di Harvard».

Una delle obiezioni a questa impostazione è che esistono casi di risveglio da situazioni di coma.
«Anche qui regna la confusione. Il punto chiave è il concetto di irreversibilità. E questo spetta alla neurologia non alla bioetica. Sono i neurologi che devono dire se una persona in coma si trova in una situazione transitoria, dalla quale potrà riprendersi, oppure se ha imboccato una strada senza uscita. Esistono definizioni standard condivise da tutti i medici: un paziente può riprenderdsi bene da un coma se si risveglia nel giro di 15 giorni, il risveglio diventa invece raro quando passano da un mese ad un anno e quasi impossibile oltre un anno. Nel secondo caso si parla di stato vegetativo persistente, nel terzo di vegetativo permanente. Sono i neurologi, che in base alle loro conoscenze devono riconoscere le differenze tra il secondo e il terzo caso, capire cioè se siamo in una situazione permanente e irreversibile».

Come il caso Englaro?
«Certamente. Perché se è quasi impossibile il risveglio dopo uno o due anni, figuriamoci dopo 16 come la povera Eluana. Una vicenda drammatica che ha mostrato l’importanza di una legge che non c’è: un vuoto che tutti vedono e tutti denunciano ma che va colmato nel modo giusto. A fine luglio, prima che chiudessero le Camere, ho presentato un progetto di legge sul testamento biologico molto semplice ma molto chiaro in cui si permette a una persona, come diceva Luca Goldoni, di "decidere, quando c’è ancora la luce, di andare via quando la luce non ci sarà più". La mia proposta, che si aggiunge a quella già presentata da Ignazio Marino, va proprio in quel senso.
E funziona così: una persona consegna un testamento a una persona di fiducia, un familiare o un amico intimo. Il quale è il tutore della volontà di quella persona: se a questa accade qualcosa, è il fiduciario che va dal medico a difendere, con la forza del documento firmato, le volontà del paziente che si trova in uno stato vegetativo permanente. Questa volontà riguarda anche l’interruzione dell’alimentazione e l’idratazione artificiale e prevede anche l’obiezione di coscienza da parte dei medici. I quali, tuttavia, sono tenuti a trasferire il caso a un collega».

Con questo testamento il caso Englaro non sarebbe nato.
«Sì, perché la mia proposta precisa che, se il paziente non vuole essere tenuto in stato di vegetazione permanente bisogna interrompere ogni intervento esterno, non solo le terapie, ma anche l’alimentazione e l’idratazione».

Proprio quello che la Regione Lombardia ha detto di non voler fare.
«E quello che avviene quando non c’è una legge: ciascuno fa come vuole. Con il paradosso che se i genitori di Eluana andassero in Germania o in Svizzera il problema non si porrebbe».

Emigrare per morire...
«È assurdo. Eppure dico che piuttosto che avere una cattiva legge, che impedisce di affrontare e risolvere i problemi, è meglio continuare come adesso. Piuttosto che avere una legge che ingabbia e imbriglia, come la legge 40 per la fecondazione assistita, è meglio lasciare le cose come stanno».

Una delle critiche mosse dal mondo cattolico è che il testamento biologico potrebbe aprire le porte all’eutanasia.
«Sono due argomenti totalmente differenti. Il testamento biologico riguarda una persona che non è in più grado di esprimere le sue volontà. L’eutanasia è l’opposto: riguarda il malato terminale che, in condizioni irreversibili di guarigione e destinato a morire in breve tempo, chiede di essere sollevato dalla sofferenza. È quello che avviene in Olanda dove è stata definita una legge che autorizza, in casi precisi di malattia terminale, di ricorrere all’eutanasia.
Ogni anno in Olanda ci sono 10.000 malati terminali che chiedono di poter interrompere la propria vita. Di queste richieste ne vengono accolte 2-3000 l’anno: le altre vengono rifiutate perché non esistono le condizioni (il paziente non era terminale o la sua volontà era influenzata da uno stato depressivo) o perché nel frattempo il paziente è deceduto. Questo è quello che avviene in Olanda, dove il tema dell’eutanasia è stato accettato dall’opinione pubblica».

Una volta lei disse che negli ospedali italiani l’eutanasia si fa ma non si dice.
«Non lo dico io, lo dicono gli esperti di terapie palliative, sostenendo che c’è un tacito accordo per affrontare i casi più disperati di sofferenza. E di solito la soluzione è quella del "Paziente inglese", come in quel film dove un malato gravissimo, non potendo nemmeno più parlare, fa un cenno all’infermiera di aumentare la dose di morfina. E’ quello che si chiama il "doppio effetto", cioè l’uso di farmaci analgesici a dosi sempre maggiori: il primo effetto è togliere il dolore, il secondo quello di accelerare la fine».

In questo modo però il peso della scelta è tutto sulle spalle del medico. Non sarebbe meglio una legge come in Olanda?
«Non lo so e a dirla tutta non mi interessa. Un po’ perché l’Italia non è preparata a un passo del genere. E un po’ perché mi trovo d’accordo con Montanelli che si diceva a favore dell’eutanasia ma non ne voleva parlare perché "questa burocrazia della morte mi dà un po’ fastidio". Diciamo che non sono favorevole all’eutanasia, ma sono favorevole a discuterne. La morte è un evento altrettanto importante e necessario della nascita. Anzi, è un dovere. L’organismo nasce e deve morire per far spazio alle nuove generazioni.
Dobbiamo affrontarla con serenità, la morte. Io dico sempre che vorrei godermi la mia morte perché è un atto di cui sono consapevole e che accetto: ho tanti figli, ho tanti nipoti e capisco che devo mettermi da parte e lasciare spazio agli altri.
Questa è la consapevolezza che permette di discuterne liberamente.
Se invece la morte viene vista come la massima punizione, come "il peggiore di tutti i mali", allora si finisce per rimuovere il problema senza mai affrontarlo. Ma si commette un errore: perché in questo modo si perde un aspetto importante della propria esistenza. E si rischia, come diceva Evtuschenco, di "morire prima di morire"».

 

da L'Unità 5 settembre 2008

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